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SHAKESPEARE & PLANK
considerazioni sul teatro: Il mio amico Giovanni Testori, Alfieri
, Ariosto, Artaud, Beaumarchai
,
Calderón de la Barca, Goethe, Goldoni,   Hofmannsthal
, Ionesco,  Joyce
,
Tadeusz Kantor, Machiavelli, Manzoni,  Maupassant, Molière, Svevo,
 
Tasso, Raffaele Viviani,  Wedekind

 

Shakespeare & Planck
Il 23 aprile nacquero
William Shakespeare (1564 – 1616) e Max Planck (1858 – 1947): attraverso i loro corpi il Tutto rappresentò se stesso in maniera condivisibile anche da altri uomini.
Tutti e due evitarono la trappola di giungere a un unica verità.
William fece dire a Macbeth che "la vita è solo un'ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un'ora sulla scena e poi cade nell'oblio: la storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di foga, che non significa nulla" e Max affermò che: la scienza è solo il progressivo accostamento al mondo reale".
Per William "noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e la nostra breve vita è cinta di sonno" e per Max "la scienza non può svelare il mistero fondamentale della natura.
E questo perché, in ultima analisi, noi stessi siamo parte dell'enigma che stiamo cercando di risolvere".
Per William "tutti i luoghi, che l'occhio del Cielo vede, sono per il saggio porti di salvezza e asili di felicità"..."E l'uomo, invece, nella sua alterigia, sebben vestito d'un potere effimero, e tanto più ignorante della cosa di cui dev'essere tanto più certo, ossia la vitrea sua fragilità, si dà, al cospetto dell'Eccelso Cielo, a somiglianza di rabbiosa scimmia, in lazzi sì grotteschi e stravaganti, da far venire le lacrime agli angeli, che, se fosser provvisti della milza, si muterebbero tutti in mortali, per via che scoppierebbero dal ridere" e per Max "tutta la materia ha origine ed esiste solo in virtù di una forza che porta la particella di un atomo a vibrare e mantenere il sistema solare insieme. Dobbiamo supporre che dietro questa forza c'è l'esistenza di una mente cosciente ed intelligente.
Questa mente è la matrice di tutta la materia".
Albert  Einstein
espresse a proposito di Max Planck una speranza che è facile attribuire anche a William Shakespeare: "come sarebbe diverso, e come sarebbe meglio per l'umanità se ci fosse più gente come lui. Sembra che in ogni tempo e su ogni continente le personalità più eccelse siano costrette a stare in disparte, incapaci di influenzare gli avvenimenti del mondo."
Per quanto mi riguarda non posso che dargli ragione anche se non riesco a liberarmi di un verso feroce di William: "noi siamo per gli dèi quello che son le mosche pei monelli: ci spiaccicano per divertimento"

Il mio amico Giovanni Testori  (1923 – 1993)
 Fu per me, oltre a un autore della mia casa editrice, anche la dimostrazione che l'amicizia nasce da motivazioni troppo misteriose e complesse da raccontate.
Difficile trovare un minimo comune denominatore fra chi visse la menzogna come lo strumento che "serve per usare la carne; per colpirla, crivellarla e stenderla, assassinata, su una delle strade che avevamo costruito per il nostro bene e per la nostra vita" e chi, come me, non utilizzerà mai l'emulazione biologica come pretesto per costruire principi etici con la pretesa di opporre menzogna a finzione, analogia e deduzione.
Probabilmente dietro queste due convenzioni esistenziali, apparentemente dissimili, vi è l'illusione tipica degli uomini di sentirsi soli e, quel che è peggio, anche indipendenti dal Tutto. Fra i molti scritti di Giovanni dedicati a questo tema mi commosse un suo articolo per la morte di Pier Paolo Pasolini nel quale anche la nostra "strana" amicizia trova una sua interpretazione credibile: " la coscienza e l'angoscia dell'essere diviso, dell'essere soltanto una parte di un'unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l'angoscia dell'essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva.
 La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l'abitudine di chiamare "diversi".
Allora, quando il lavoro è finito (e, magari, sembra averci ammazzati per non lasciarci più spazio altro che per il sonno e magari neppure per quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con cui, magari, s'è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una silenziosa lotta o intrico d'odio e d'amore) e si resta lì, soli, prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un "qualcuno"; quel "qualcuno" che ci illuda, fosse pure per un solo momento, di poter distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell'unità lacerata e perduta".

TESTORI E PARENTI VENIVANO DA LONTANO di Luigi Granetto
 Il Teatro Franco Parenti  di Milano ha festeggiato, la notte del 16 gennaio, il suo primo quarto di secolo con brindisi, risotto, giri di valzer e tanti improbabili reduci dalla memoria fervida.
 Mario Capanna, che nell'anno 1973 premiava i picchiatori con una medaglia d'argento con l'effigie di Giuseppe Stalin, ha ricordato come questo Teatro, risonante ancora delle eresie del cattolicissimo Giovanni Testori e del liberissimo pensatore Parenti, fu' aperto anche per merito della sua rivoluzione. Carlo Fontana, pur riconoscendo di non aver mai capito niente di un testo come il Macbetto, si è detto convinto della grandezza del suo autore.
 Emilio Tadini, che in quegli anni prestava consapevole vassallaggio alla corte di Marconi, titolare della Galleria provincial-modernista più odiata da Testori, è riuscito a scambiare la raffinata lingua dell'Ambleto (costruita su una perfetta conoscenza del latino e su una complessa amalgama di fonti colte e brianzolo reinventato) per il suo più vicino antagonista linguistico: il dialetto popolare milanese.
 Piero Mazzarella, nella pregevole ma ingenua sua guitteria, ha ridotto, con uno monologo stralunato che avrebbe provocato in Parenti un'irrefrenabile sete di liquori illuministi, una delle esperienze culturali più significative del dopoguerra a una questione di mestiere.
 Non saprei dire se questa serata, definita con entusiasmo dalla Sotis "trionfante" saprà trasformare le vaghe promesse del Sindaco Albertini in tangibili beni pecuniari, ma di una cosa sono certo: per aiutare il "Franco Parenti", e specialmente Milano, a ritrovare il suo ruolo culturale nel paese, sara' forse necessario cercare di proferire qualche passionale e verosimigliante verità.
 Il Pier Lombardo fu' voluto da due scomodi e geniali artisti, Giovanni Testori e Franco Parenti, da un rigoroso studioso, Dante Isella, dal più aristocratico degli scenografi, Maurizio Fercioni e soprattutto da una fanciulla controcorrente, riottosa ad ascoltare le sirene del '68: la regista Andrée Ruth Schammah.
Questa compagnia di maltrainsema visse come "se tutto fudesse inzolamente la fantasia dei noi" in un luogo "squasi alle porte della illustrissima e magnificientissima mediolaniensis urbiz".
In quella città, insomma, dove, fra sventolio di rossobrectiane bandiere, coglionerie legnanesi, Fo-comizi teatrali, unti risotti alla cumenda-Bramieri, re nudi e troppo-coperti-Formigoni, fra Trussardi in bicicletta e Berlusconi salvatetta, una classe di voltagabbana senza scrupoli, d'ignorantissimi truffatori, di piccoli eroi della meschinità, consolidava il suo potere e imparava a giocare a golf.
 Potere golosamente appetibile perché costruito sulla mediocrità, l'unica attitudine dello spirito foriera di grandi consensi, capace di rendere omogenee le esperienze più contrastanti: destra e sinistra, avanguardia e conservatorismo, fede e interessi. Nel suo discorso il Sindaco Albertini ha detto "una giunta di destra che da ossigeno a una cultura di sinistra è il massimo che si può ottenere oggi a Milano".
 Purtroppo la vera cultura, quella che rimane e stratifica il sapere, non è ne di destra ne di sinistra; il rinnovato interesse per D'annuzio passa per la considerazione che di lui aveva Pablo Neruda, la decrepita e provinciale diatriba crociani-anticrociani lascia spazio alla rilettura di un pensatore cattolico, amato da Bottai e da Gramsci, come Giuseppe Toffanin, l'improvviso interesse americano per una delle più grandi artiste del nostro seicento, Artemisia Gentileschi, dipende da una mostra organizzata da Stella, il più importante pittore astratto americano.
 Come spiegare che la mediocrità, il respiro corto, il facile consenso, pur potendo fortunosamente essere funzionali alla commistione fra economia e politica sono pero' deleteri per il binomio cultura-civiltà?
 Probabilmente l'incontro fra il bisogno di consenso immediato della politica e la necessità di un tempo dilatato della cultura, si ha solo quando un rispettoso desiderio di conservazione è capace di creare, come fuori dalla Fondazione Mazzotta, file interminabili di cittadini: gli stessi che rimangono con il fiato sospeso davanti alla magica bacchetta di Muti.
 Per poter conservare qualche cosa, si dovrebbe fare in modo che qualche pazzo, come Andrée Ruth Schammah, fra mille sbagli e altrettanti commoventi insuccessi, sapesse anche lasciare opere geniali come la trilogia di Testori, o lavori semplicemente convincenti come la riduzione teatrale del bel libro di Emilio Tadini: "La Tempesta.
 Del resto, di tutta la chiassosa e costosa storia del Piccolo, rimarranno qualche vago ricordo da nonno a nipote, il racconto di un grande ma meschino regista che non ha saputo insegnare ad alcuno la sua arte, il brutto e inutile teatro di Zanuso e qualche testo spurio di Lunari sui quali stendere pietosamente i velluti dei sipari: tanto rumore per nulla.

Vittorio Alfieri (1749 – 1803)
Vittorio nacque ad Asti il 16 gennaio del 1749 e dedicò tutta la vita ad attualizzare il pensiero di Niccolò Machiavelli con il fine di combattere il conformismo che permette alla tirannia di rinascere malgrado le buone intenzioni dei suoi oppositori.
Riuscì a trasformare la tradizione greca dell'eroe tragico in letteratura-azione senza cadere nell'utopia dell'intellettuale organico ma, al contrario, valorizzò i requisiti, necessariamente individuali, di chi è in grado di promuovere nei suoi simili, l'amore della libertà, la coscienza dei propri diritti, la responsabilità inalienabile del proprio destino.
Tale eroe apparve a molti progressisti, immaginario e inconcludente, poi arrivarono Hitler e Stalin che, come Saul, furono simultaneamente tiranni dei propri popoli e vittime della tirannia dell'ideologia che gli sovrastava.
Uno dei pochissimi rivoluzionari del novecento che comprese la forza del suo pensiero fu Piero Gobetti che gli dedicò nel 1921 la sua tesi di laurea "La filosofia politica di Vittorio Alfieri" e scrisse: " la genuina atmosfera storica di Alfieri non è nel rigido ambiente tradizionale italiano, ma nel fervore spirituale europeo che con la libera critica preparava il culto dell’individualismo e le lotte per la libertà"
Per capire, una volta per tutte, l'assoluta grandezza etica e politica di Vittorio Alfieri basterebbe comparare il lavoro "civile" di un Paolo Spriano con quello di Pier Paolo Pasolini o di Gor'kij rispetto a Bulgakov che morì con la maggior parte delle sue opere rimaste nel cassetto pubblicate solo negli anni settanta e ottanta e criticate aspramente da molti "intellettuali organici" anche italiani.
Dedicato a tutti quelli che fanno molta fatica a capire quanto sia importante la solitudine, l'incomprensione e in fin dei conti l'eroismo di gente come Dante, Machiavelli, Galilei per poter assicurare a tutti dei sostanziali cambiamenti di civiltà.

Ludovico Ariosto  (1474 – 1533)
Poeta e commediografo figlio di Niccolò e di Daria Malaguzzi Valeri della stessa famiglia di Lodovico Malaguzzi Valeri che sposò Chiara, sorella della mia ava diretta Elena Sagredo. Ludovico aveva fra i suoi avi anche Lippa Ariosti moglie di Obizzo III d'Este che fu madre di Alda moglie del mio consanguineo Ludovico II Gonzaga.
Della sua personalità complessa amo molto la capacità di depistare i lettori che sperano di ritrovare nei suoi versi qualcosa che permetta loro di conoscere il mondo privato del loro autore.
Più bugiardo di Federico Fellini ebbe una vita complicata, sempre in viaggio, sempre ln lotta con situazioni politiche difficili ma in una sua poesia ha la faccia tosta di dire: "

E più mi piace posar le poltre
 membra, che di vantarle che alli Sciti
sien state, agli Indi, a li Etiopi et oltre
....
Chi vuole andare a torno, a torno vada
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna,
a me piace abitar la mia contrada"

Da grandissimo diplomatico qual'era si era fatto l'idea che

quantunque il simular sia le più volte
ripreso, e dia di mala mente indici,
si trova pur in molte cose e molte
aver fatti evidenti benefici, |
e danni e biasmi e morti aver già tolte;
 che non conversiam sempre con gli amici
in questa assai più oscura che serena
vita mortal, tutta d'invidia piena"

Pur avendo scritto la poesia epica più straordinaria che ci si possa immaginare è quasi impossibile trovare dei versi che lo coinvolgano oltre alla finzione, tranne forse uno terribilmente e dolorosamente reale:

O d'ogni vizio fetida sentina,
dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa 
ch'ora di questa gente, ora di quella
che già serva ti fu, sei fatta ancella?

Antonin Artaud (1896 – 1948)
Commediografo, attore teatrale e scrittore francese rappresentò per l'ennesima volta il mito romantico del creatore psichicamente instabile che utilizza la sua malattia per scopi artistici .
Tale mito seppe ripetersi con prevedibile abbondanza di contraddizioni soggettive sempre contrapposte alle difficoltà mimetiche di chi visse da Sofocle a Samuel Beckett l'oggettività dell'autentico spirito della tragedia.
Per Sofocle " qualsiasi mortale che sia infuriato per i propri torti e usi un farmaco peggiore del male è un medico che non comprende la malattia".
Per Beckett non "c'è niente di più comico dell'infelicità" mentre per Artaud solo " il senso dell'anarchia" il sentirsi "lacerato e diviso" l'essere pervasi da "tormenti dell'anima e del corpo" possono aiutare l'uomo ad abbandonare l'inferno come fece il suo adorato Van Gogh perché, per il decadentissimo e ingenuo Artaud, "nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non, di fatto, per uscire dall'inferno".
Non riuscì mai a staccarsi dal proprio ingombrante egocentrismo ma seppe descrivere la sua malattia con spietato realismo: "il pensiero mi abbandona a tutti i livelli. Dalla pura essenza del pensiero fino al fatto esteriore della sua materializzazione attraverso le parole. Parole, forme di frasi, direzioni interiori del pensiero, reazioni semplici dello spirito, sono alla costante ricerca del mio essere intellettuale"
Terribile e realmente dolorosa rimane per me la sua incapacità o forse quella dei suoi psichiatri di tentare un compromesso onorevole per farlo vivere in maniera più serena.
Scrive lo stesso Artaud prima di morire in manicomio: "se otto anni fa sono stato internato e da otto anni mantenuto internato, questo dipende da una palese azione della cattiva volontà generale che a nessun costo vuole che Antonin Artaud, scrittore e poeta, possa realizzare nella vita le idee che manifesta nei libri, perché si sa che Antonin Artaud ha in sé mezzi d'azione di cui non si vuole che si serva, quando invece lui vuole, insieme a qualche anima che gli vuole bene, uscir fuori da questo mondo servile, di un'idiozia asfissiante e per gli altri e per sé, e che si compiace di questa asfissia".

Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais  (1732 – 1799),
Beaumarchais. l'autore del Barbier de Seville e del Mariage de Figaro, che fecero la fortuna di Rossini Paisiello e Mozart, furono e sono opere meravigliose anche da vedere a teatro.
Ebbi la fortuna di pubblicare nel 1973, nella traduzione di Mario Moretti, "Il matrimonio di Figaro" in occasione della messa in scena di questa splendida commedia con la regia di Armando Pugliese, le scene di Bruno Garofano e con dei giovanissimi e scatenati Mariano Rigillo, Ettore Conti e Pamela Villoresi.
Da questa e dalle altre sue altre opere traspare vivacità, gioia del vivere ma specialmente ottimismo per un' epoca nella quale gli ideali liberali sembravano ormai pronti ad essere attuati. Lontanissimo da queste pagine l'orrore dei morti provocati dalla Rivoluzione Francese, dalla reazione spropositata dell'impresa napoleonica, dei martiri della Comune di Parigi, del nostro Risorgimento e degli stermini di massa attuati dal nazifascismo e dal comunismo.
Nel "Il matrimonio di Figaro" ci sono due battute profetiche che mi hanno sempre allarmato: "mediocre e strisciante, e si arriva a tutto" e " dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere torto".
Queste battute sommate a quella presente nel "Il barbiere di Siviglia", "mi affretto a ridere di tutto e di tutti, per la paura di essere costretto a piangerne" non appartengono solo all'epoca di Beaumarchais ma anche alla nostra, nella quale sta rinascendo, per l'ennesima volta, un movimento liberale e libertario che vorrebbe opporsi agli spietati regimi dittatoriali come quello cinese ma specialmente russo capace di condizionare la democrazia americana resa più fragile dall'elezione di Trump.

Michail Bulgakov  (1891 –1940)
Nacque il 15 maggio Michail Afanas'evič Bulgakov del quale pubblicai nel 1974 la riduzione teatrale del suo romanzo "Cuore di Cane" ,scritta e tradotta da Viveca Melander con l'aiuto del drammaturgo Mario Moretti.
Michail disse di se stesso; "Io sono uno scrittore mistico. Mi servo di tinte cupe e mistiche per rappresentare le innumerevoli mostruosità della nostra vita quotidiana, il veleno di cui è intrisa la mia lingua, la trasfigurazione di alcune terribili caratteristiche del mio popolo".
Naturalmente fu molto di più.
Convinto come William Shakespeare che vi siano più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la nostra filosofia, dedicò tutta la sua vita a rivalutare la proprietà umana di stupirsi e di meravigliarsi di ciò che il Tutto offre malgrado la sua irriducibilità a quello che noi pretendiamo di sapere.
Riuscì a sopravvivere all'orrore del comunismo sovietico nel quale piccoli borghesi ignoranti cercarono di creare una nuova realtà, modellata sulla finitezza delle idee contrapposte alle osservazioni della complessità del Tutto, le sole capaci di fornire infinite possibilità e probabilità alle multiformi capacità interpretative del cervello umano.
Rimane un vero mistero di come Michail riuscì a salvarsi la vita ma probabilmente anche quello psicopatico di Stalin apprezzò la sua dote migliore: ridere e far ridere di gusto gli altri.
Non era mai successo che per difendere le "ragioni" di Dio uno scrittore scegliesse proprio il diavolo facendolo rispondere all'ateo Maestro, assertore delle "ragioni" dell'uomo: "mi scusi, replicò gentilmente lo sconosciuto, per dirigere bisogna pur avere un piano preciso, e per un periodo di tempo ragionevole. Mi permetta di chiederle in che modo l’uomo potrebbe dirigere se non solo non è in grado di predisporre un piano qualsiasi neppure per un lasso di tempo ridicolmente breve come, diciamo, mille anni, ma non è addirittura sicuro del proprio domani... Sì, l’uomo è mortale, ma questo sarebbe un male da poco. Il peggio è che talvolta è mortale all’improvviso, ecco il punto! E non è neppure capace di prevedere quello che farà la sera".

Calderón de la Barca   (1600 – 1681)
Io sogno di esser qui |
oppresso da questa prigione |
e ho sognato che in un altro stato |
più lusinghiero mi sono visto. |
Che è la vita? Un delirio. |
Che è la vita? Un'illusione, |
un'ombra, una finzione, |
ed il bene più grande è piccolo; |
che tutta la vita è sogno |
ed i sogni, sogni sono",

Questi famosi versi, nella traduzione di Vasco Caini. tratti da "La vida es sueño" di Pedro Calderón de la Barcanon sono solo l'esercizio di un poeta pessimista che retoricamente se la prende con la vanità universale di chi si ostina a dare troppa importanza al libero arbitrio e alla validità dell'operare umano, spesso in lotta con le "ragioni" della sua contingenza e in fuga dalla Sapienza del Tutto ma, forse per la prima volta, questi versi pongono al centro della conoscenza i concetti di "finzione" e di "emulazione" indipendentemente dal loro rapporto con l'uomo.
L'apparenza che governa il teatro di Calderón, che consente agli attori di recitare parti diverse, non è altro che uno specchio che riflette la contraddizione fra facoltà pre-logiche che rendono possibile l'emulazione e i meccanismi logico-inferenziali che permettono all'uomo di afferrare l’eterno in ciò che è disperatamente fugace.
Scrissi qualche anno fa in un saggio dedicato alla finzione: " il dubbio, la finzione di esistere, come entità indipendente dal tutto coagulato, generò l'immagine polisensa di se stessa.
La quale, a sua volta, cercò, con alterna fortuna, di selezionare le finzioni concatenabili dubitativamente per somiglianza e differenza, secondo un sistema ritenuto congruo, ordinato, capace di connettere a sé immagini ritenute incongrue".
Per far questo la mente immaginò "un punto d'osservazione periferico, dal quale si poté far coincidere la visione con il il sistema congruo prescelto. Scelse così la possibilità di osservarsi solo attraverso un’immagine riflessa, che restituiva la sua stessa immagine deformata attraverso le regole di quel sistema.
Aveva scelto un imbroglio tanto vero che le permetteva una sincerità menzognera"
Fra i poeti che raccolsero l'eredità di Calderón vi fu anche il mio amato René Char che scrisse: "L'Homme est capable de faire ce qu'il est incapable d'imaginer. La tete sillone la galassie de l'absurde". L'uomo è in grado di fare ciò che non è in grado d'immaginare. La sua testa solca la galassia dell'assurdo" Concedo ai miei troppi amici che venerano la logica la possibilità di difendersi!

Johann Wolfgang von Goethe  (1749 – Weimar, 22 marzo 1832)
Nacque il 28 agosto il bambino Johann Wolfgang von Goethe (1749 – 1832) che divenne viandante perché "l'uomo erra finché aspira", poeta perché "gli antichi erano così limitati e felici! i loro sensi e la loro poesia così ingenui!" e drammaturgo perché "la nostra immaginazione spinta dalla sua propria natura a elevarsi, e nutrita di fantasmi poetici, si costruisce una scala di esseri superiori, fra i quali noi occupiamo l'infimo grado; e ogni cosa fuori di noi ci appare più perfetta" e infine amico personale di tutti i suoi lettori come me, incapaci di non amarlo se non in maniera esagerata con una qualità dell'affetto sempre superiore alla naturale ammirazione per un autore così geniale.
George Eliot lo considerava "l'ultimo uomo universale a camminare sulla terra" ma io penso che fu l'ultimo bambino consapevole e felice di esserlo come quando disse " che i bambini non sappiano quello che vogliono, su questo sono perfettamente d'accordo precettori e maestri dottissimi; ma che anche gli adulti brancolino alla cieca su questo pianeta, come i bambini, e come loro non sappiano da dove vengano né dove vadano e infine che neppure loro agiscano per motivi veri e reali, ma si lascino invece guidare solo da zuccherini, dolci e frustate: questo nessuno è disposto a crederlo e a me invece sembra una verità addirittura evidente."
Fra le sue credenze da me più amate vi è la sua simpatia per i pochi che sanno ridere dei loro errori, difficile contestare che "gli errori dell'uomo lo fanno particolarmente amabile" perché " la verità è scostante, l'errore attraente, perché la verità ci fa sembrare limitati, e l'errore onnipotenti.
Inoltre la verità è scostante perché è frammentaria, incomprensibile, mentre l'errore è coerente e conseguente" Grazie vecchio amico di avermi dato la possibilità di ricordarti!.

Carlo Goldoni (1707 –1793)
Il 25 febbraio nacque a Venezia Carlo Goldoni e per breve tempo la gioia di poter ridere si liberò dal sarcasmo di Voltaire e Swift, dagli eccessi grotteschi di Aristofane e Plauto, dalla sottile malinconia di Molière e dalla saccenza del Manzoni. Fu un riso limpido, privo di fiele e di volgarità, capace di trovare un accordo che riconcilia tutto il corpo con gli effetti di un uso nevrotico dell'intelletto umano. Questo suo essere olimpico riuscì miracolosamente ad attenuare anche l'inevitabile livore della Chiesa cattolica, sempre pronta a insozzare tutto ciò che è bello, buono e giusto, il tribunale dell’inquisizione impose la sospensione della sua opera “La vedova scaltra“ attaccata con furore dall'abate Pietro Chiari che scrisse "La scuola delle vedove", parodia bigotta piena di “invettive e di insulti” contro una presunta immoralità di Goldoni. Per sua fortuna il cardinale Carlo Rezzonico che ammirava la sua bontà e umiltà riuscì a farlo ricevere dallo zio Clemente XIII, il famoso papa Braghettone che fece coprire le parti intime di statue e dipinti e mise nell'Indice dei libri proibiti l'Encyclopédie di D'Alembert e Diderot ma che fu anche di temperamento mite e stranamente di carattere retto e moderato e che concesse al Goldoni di rappresentare delle opere a Roma, naturalmente facendole recitare esclusivamente alle compagnie teatrali di soli uomini, poiché le attrici erano bandite in tutte le terre soggette al potere temporale dei papi. Comunque a un certo punto della sua vita Goldoni preferì andare a vivere a Parigi dove insegnò lingua italiana alle figlie di Luigi XV, Adelaide e Luisa e scrisse in francese Le Bourru bienfaisant (Il burbero benefico) andato in scena la sera del 4 novembre 1771 nel tripudio generale. Visse purtroppo anche i tragici giorni del terrore giacobino che però gli diedero l'opportunità di scrivere, sempre in francese. la sua meravigliosa autobiografia, Mémoires. Morì povero il 6 febbraio 1793 il giorno dopo la Convenzione decretò che la pensione che gli aveva sospeso andasse alla sua vedova Nicoletta Conio.

Jaroslav Hašek (1883 – 1923)
Il suddito praghese dell'Impero austro-ungarico Jaroslav Hašek, frequentemente arrestato e imprigionato per le sue idee libertarie, licenziato dal giornale Svět zvířat (Il mondo degli animali) per aver pubblicato articoli su animali immaginari, nel 1915 finì prigioniero dei russi dove lavorò come segretario del comandante del campo di concentramento e incominciò a riscrivere il suo romanzo "Il buon soldato Sc'vèik" che divenne un capolavoro tradotto in più di 120 lingue.
Sc'vèik, provocando un'enorme risata che dura dalla prima all'ultima pagina del romanzo riuscì, dopo aver sconfitto il mostro dei valori che provocarono la prima guerra mondiale, a far volare con la sancta simplicitas il pesantissimo elefante divenuto, per merito della sua scrittura, una leggerissima farfalla.
Nel 1973 pubblicai la riduzione che fece Bertold Brecht del romanzo di Hašek in occasione dello spettacolo del Gruppo della Rocca con la regia di Egisto Marcucci.

Hugo von Hofmannsthal  (1874 – 1929),
Lo scrittore, drammaturgo e librettista Hugo von Hofmannsthal dopo aver trovato il l coraggio di evocare lo spirito di William Shakespeare nelle sue Terzine sulla caducità: "Siamo fatti della stessa materia di cui s'intessono i sogni, / e i sogni sollevano le palpebre / come i piccoli bambini sotto i ciliegi, / dalla cui corona il suo cammino oro pallido / la luna piena inizia attraverso la grande notte /E tre cose sono una: un uomo, un oggetto, un sogno", abbandonò la poesia pura per adattarla alle esigenze della drammaturgia musicale che per vent'anni lo vide protagonista accanto Richard Strauss. Fu uno dei pochi intellettuali che comprese l'importanza di una Konservative Revolution (Rivoluzione conservatrice) la stessa che Antonio Gramsci individuò nel binomio conservazione-innovazione che "contiene in sé l’intero passato, quello degno di svolgersi e perpetuarsi"...."nessuna forza storica innovatrice si realizza immediatamente al 100%, ma appunto è sempre razionale e irrazionale, storicistica e antistoricistica, è «vita» cioè, con tutte le debolezze e le forze della vita, con le sue contraddizioni e le sue antitesi". Colpito nella mia giovinezza da una risposta di Hofmannsthal "dove va nascosta la profondità? Alla superficie" scrissi " solo la superficialità ha la profondità delle cose nascoste, in essa tutto rimane da indagare, scoprire, analizzare. Superficialmente si dicono cose che non basterà un vita per comprendere", insomma alla sua tedeschissima volontà di potenza opposi la tendenza a prendere in giro il proprio fastidioso ego. Mi sono sempre chiesto perché un artista del suo valore ignorasse il valore terapeutico della risata, che gli avrebbe permesso di non ridurre Shakespeare e Wolfgang von Goethe ma anche il suo mitizzato Gabriele d'Annunzio a semplici filosofi quando nella realtà fecero di tutto per diventare dei saltimbanchi. Probabilmente la risposta ce la data lui stesso quando ci fa capire d'ignorare totalmente la pienezza dell 'ebrezza dionisiaca che non è solitamente una dote dei professori: "noi stiamo a guardare la nostra vita; noi vuotiamo la coppa anzitempo e restiamo tuttavia infinitamente assetati: poiché, come di recente ha detto bene e melanconicamente Bourget il calice che la vita ci porge ha un'incrinatura, e mentre la coppa piena ci avrebbe forse inebriato, mancherà in eterno ciò che, all'atto di bere, stillando di sotto, ne va perduto; così nel possesso sentiamo la perdita, sentiamo nell'esperienza ciò che ogni volta ci sfugge. Non abbiamo per così dire radici nella vita, e ci aggiriamo, ombre chiaroveggenti eppure cieche alla luce del giorno, tra i figli della vita".

Eugène Ionesco (1909 –1994),
Nacque a Slatina il 26 novembre del 1909 per combattere e perdere la più terribile delle guerre: trovare un linguaggio portatore di senso in una società dove, borghesi inariditi, affidano, a banali e conformistici clichés, la tragedia di un evasione impossibile dal nulla che gli sovrasta.
 L'assurdo in lui divenne gioco spettacolare di un continuo cabaret della risata, sostenuto da una magistrale scrittura, capace di accettare la rappresentazione nella sua contraddittorietà.
 La vacuità, vestita di finta leggerezza, divenne l'unica maschera del suo teatro che dipanò le sue trame in un ambiente in decomposizione, abitato da egocentrici incapaci di capire il dramma della propria solitudine.
Vacuità che trasformò il linguaggio del sapere in vuota conversazione capace di erigere uno ostacolo insuperabile per chi volesse cimentarsi in scambi veri tra esseri umani. Comunque a tutti quelli che hanno letto queste poche righe e si sono detti "MI PIACE" consiglio di chiedersi se per caso hanno contratto il morbo della "rinocerontite" che purtroppo non si cura solo leggendo "Il Rinoceronte" di Eugène Ionesco ma con una particolare ginnastica patafisica.
Fra gli esercizi più noti per sconfiggere la "rinocerontite" vi sono le domande che DEVONO ottenere SOLO risposte contraddittorie tipo: perché la leggerezza e la pesantezza sono più simili di quello che si crede?
Perché una persona onesta può fare più danni che una disonesta?
Perché il laicismo può essere molto più pericoloso dell'integralismo islamico?
Perché armonizzare i contrari o svelare l'inconscio può indurre psicopatie gravi peggiori di quelle provocate da un uso eccessivo di logica deduttiva?
Perché l'onirismo nasconde e trasforma il reale mentre il reale fa lo stesso?
Perché in ogni vittoria si nasconde un fallimento?
Perché l'esperienza immaginata può essere più concreta di quella vissuta?
INFINE L'ESERCIZIO PIU' DIFFICILE: Perché pur sapendo che opporsi alle imprese dei rinoceronti è impossibile non possiamo fare altro che tentarci?

James Joyce  (1882 – 1941)
Lo scrittore, poeta e drammaturgo irlandese James Joyce, oltre ad avere avuto paura dei cani, dei temporali, dei cattolici e dell'Irlanda ebbe l'immensa fortuna di essere adorato da Italo Svevo che lo convinse a vivere a Trieste, da Ezra Pound che gli permise di dedicarsi solamente alla scrittura aiutandolo a pubblicare Ulysses e A Portrait of the Artist as a Young Man conosciuto in Italia con il titolo di Dedalus e in fine da Samuel Beckett che lo convinse a pubblicare Finnegans Wake.
 Il critico d'arte e letterario Mario Praz riuscì a riassumere in poche righe il luogo comune della incomprensibilità di Joyce "un uomo che cogliamo in aspetti obliqui di bohème, di fuggitivo, di straniero, personaggio ambiguo e talora grottesco come il suo Bloom; un pedante, un maniaco, un poeta con molte caratteristiche del raté, le cui opere sarebbero rimaste quelle di un raté in ogni altro secolo fuor che nel Novecento, che si arrese al fascino della loro illeggibilità".
Meno male che a difenderlo ci fu Pablo Picasso "Braque e James Joyce sono gli incomprensibili che tutti capiscono". Certamente i "tutti che capiscono" non devono avere una grande cultura ma è meglio per loro se appartengono alla razza degli anti pedanti, degli ironici soddisfatti che preferiscono più ridere che sorridere.
Gli eterni schiavi del senso, del politically correct, molto rispettosi dell'idiozia ma quasi mai del genio, non potranno mai capire ne la frase dell'Ulysses "ognuno ha i suoi gusti, come disse Morris quando baciò la vacca", ne quello che scrisse Henry Miller: "ci sono passi nell'Ulisse che si possono leggere soltanto al gabinetto, se si vuole gustare appieno il piacere che essi danno"
Joyce scisse un 
unica commedia teatrale, "Esuli", amata solo da George Bernard Shaw e  considerata non rappresentabile da William Butler Yeats e dal suo amico Ezra Pound  per l'elevato, scabroso e veritiero erotismo di carattere sfacciatamente autobiografico.
Ma come Pablo Picasso ridicolizzò il povero Mario Praz così il premio Nobel
Harold Pinter portò  al successo nel 1970 al Teatro londinese di Mermaid questo capolavoro di ossessione e inganno ma anche di veri istinti amorosi e di passioni erotiche
.

Tadeusz Kantor  (1915 – 1990),
 Tadeusz Kantor in una sua poesia scrisse: "La notte come una fanciulla amata attesa con nostalgia. È stato in una notte come quella che cominciò il mio teatro, la Povertà, la felicità e i PIANTI, e l'amore. Lentamente si compiva il Miracolo o l'Arte. I bambini aspettano sempre. Per tutta la vita ho aspettato qualcosa che, credevo, sarebbe avvenuta." Era convinto che: " "lo spazio della vita dimora accanto a quello dell'arte, insieme e a vicenda confondendosi e compenetrandosi, condividendo un destino comune" Non volle mai rinunciare al suo ego invadente, straziato dal nichilismo metafisico di stampo ottocentesco rinvigorito dalle filosofie esistenzialiste che a loro volta tentarono di rinnovare il trascendentalismo kantiano. Fu quindi il più decadente dei creatori del teatro d'avanguardia, non riuscendo a liberarsi di un passato recente cercò nel dolore, nella morte e nella rimozione di un passato più antico di testimoniare il dramma della contemporaneità come un luogo vuoto dominato dall'oblio e da un abissale e non raggiungibile spazio della memoria. Delle sue teorie sull'origine funebre dell'attore, sulla non importanza dei testi, sul dualismo fra mausoleo dell'eternità e la nevrotica frantumazione del passato non è rimasto nulla ma per fortuna i suoi spettacoli, le sue poesie e le sue opere d'arte furono superiori alle sue obsolete idee.

Niccolò Machiavelli (1469 – 1527), 
"Quel grande / che temprando lo scettro a' regnatori gli allor ne sfronda, ed alle genti svela /
di che lagrime grondi e di che sangue"
(Ugo Foscolo)

Fondò i principi di una possibile scienza politica "Il Machiavellismo è lo sforzo di portare alla luce le ipocrisie della commedia sociale, di cogliere i sentimenti che fanno veramente muovere gli uomini, di catturare i conflitti autentici che costituiscono il tessuto del divenire storico, di dare una visione di ciò che è realmente la società, spogliata da tutte le illusioni" ( Raymond Aron (1905 – 1983) uno dei più importanti pensatori liberali contemporanei).
 I suoi libri furono messi all'indice poco dopo la sua morte per volere di Gian Pietro Carafa che, prima di diventare papa con il nome di Paolo IV. ottenne da Alessandro Farnese, Paolo III, l'istituzione della Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione e una volta salito al soglio di Pietro creò la Congregazione del terrore degli uffiziali di Roma nella quale si auto elesse giudice supremo in quanto rappresentante di Dio in terra.
Ma i veri nemici di Machiavelli furono gli stessi che travisarono il pensiero di Galileo Galilei, i figli sciocchi di René Descartes che scambiarono la scienza empirica, valida solo se suffragata da prove, con il razionalismo che per essere credibile si accontenta dell'astratta certezza delle scienze matematiche.
Cadde in questo equivoco anche Immanuel Kant nel suo saggio "Per la pace perpetua" che, subordinando la politica a superiori valori morali, apri la strada all'idealismo e quindi alle varie forme di "fede" ideologica lontanissime dal realismo politico del segretario fiorentino.
Sbagliò anche il liberale Francesco de Sanctis sintetizzando il pensiero di Machiavelli con la famosa e inopportuna frase "i fini giustificano i mezzi" non applicabile a un autore che non volle "giustificare" nulla proprio per fare dell’autonomia della politica dalla morale il fulcro del suo pensiero.
Comunque a me sembra assurdo che dopo quasi cinque secoli si sia aggravato il problema dell'incapacità di scelta e di decisione del "vulgo" contrapposta alla scarsa cultura storica e scientifica e quindi alla facoltà di imparare dagli errori, delle oligarche che esercitano il potere reale.
Scriveva Niccolò: "è facil cosa, a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future, e farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati; o, non ne trovando degli usati, pensarne de'nuovi, per la similitudine degli accidenti"
Come autore di teatro scrisse  oltre al capolavoro assoluto "La Mandragola", le commedie  "Clizia" e "Adria", la prima, spiritosa rielaborazione della "Casina" di Plauto e la seconda, riscrittura dell'opera di Terenzio.
La Mandragola divenne anche uno spassoso film diretto da
 Alberto Lattuada e interpretato dal grandissimo Totò  nella parte di frate Timoteo, da Philippe Leroy nel ruolo di Callimaco, Rosanna Schiaffino nel ruolo di Lucrezia, Jean-Claude Brialy nel ruolo di Ligurio, il mio amico Romolo Valli nel ruolo del notaio Nicia,  una più che credibile Nilla Pizzi nel ruolo di Sostrata, Armando Bandini nella parte di Siro e
il mio amico Romolo Valli nel ruolo del notaio Nicia.

Alessandro Manzoni  (1785 – 1873)
Fu un pronipote della mia consanguinea Maria Visconti di Saliceto, madre di suo nonno, l'autore del trattato Dei delitti e delle pene Cesare Beccaria e quasi certamente figlio dell'amante di sua madre Giulia, Giovanni Verri, fratello minore di Alessandro e Pietro Verri.
Alla morte di Carlo Imbonati, altro amante e convivente di sua madre si trovò esageratamente ricco e plagiato da Giulia che gli impose come moglie Enrichetta Blondel, sposata prima con rito calvinista e poi spinta all'abiura della sua fede e risposata con rito cattolico.
Quattro anni dopo la morte di Enrichetta Alessandro si risposò con Teresa Borri che, oltre a detestare la suocera. lo aiutò a rendere l'ultima edizione dei Promessi Sposi, quella del 1842, il gioiello letterario che tutti conosciamo.
Dopo il biennio rivoluzionario (1848-1849), Manzoni e Teresa si trasferirono nella villa di Lesa sul Lago Maggiore che permise allo scrittore di riconciliarsi, per merito di Antonio Rosmini alla "verità oggettiva" che tradotto in linguaggio psicanalitico equivale a un minimo principio di realtà che sapesse distinguere la pura invenzione fantastica dalla sua interpretazione fattuale.
Naturalmente questa ulteriore "conversione", se da una parte lo aiutò a vincere l'agorafobia, gli svenimenti continui, il timore delle pozzanghere e altre bizzarre paure, gli costò, dopo la morte, i furiosi attacchi della rivista dei gesuiti "La Civiltà Cattolica" anche se non capitò ai suoi libri di essere proibiti dal Sant'Uffizio "Post Obitum" come quelli del suo amico Rosmini che dal 18 novembre 2007 è venerato come beato dalla stessa Chiesa che lo perseguitò: misteri della fede!
Fra tutto quello che è stato detto su Alessandro trovo impeccabile quello che scrisse Giorgio Bassani: "la disinvoltura linguistica del dialogo manzoniano cos'altro è se non il segno, la spia, di una religione indifferente alla realtà, alla realtà così com'è intesa dai romanzieri realisti?". Difficile in poche parole riassumere grandezza e limiti di un collega romanziere!

Guy de Maupassant  (1850 -1893),
Il 5 Agosto nacque lo scrittore e drammaturgo Guy de Maupassant (1850 1893) del quale pubblicai nel  i975 la riduzione teatrale del suo romanzo "Bel Ami" scritta da Luciano Codignola per uno spettacolo del Teatro Stabile di Torino con la regia di Aldo Trionfo le scene di Emanuele Luzzati, la musica di Sergio Liberovici e un cast di eccezione: Franco Branciaroli, Leda Negroni, Tina Lattanzi, Lucio Rama e molti altri.
Sifilitico, drogato e pessimista più del necessario, dopo aver tentato il suicidio fu internato nella clinica Maison Blanche di Passy dove morì a 43 anni dopo diciotto mesi d'incoscienza. Lev Tolstoj fu il più crudele dei suoi lettori quando scrisse "ho letto Maupassant: ti prende con la maestria dei colori, ma non ha nulla da dire, poveretto", naturalmente ebbe torto perché il suo nichilismo influenzato da Schopenhauer e dalla moda antiborghese della sua epoca fu solo di facciata mentre la sua scrittura, mai appesantita da analisi filosofiche o morali, riuscì, in maniera straordinariamente sintetica ed antiretorica a dare voce proprio a quei disperati, emarginati, ma specialmente disprezzati, in maniera più convincente di Zola e dello stesso Lev Tolstoj.
Era convinto che " i grandi artisti sono quelli che impongono all'umanità la loro particolare illusione" ma seppe parlare della sua psiche con una lucidità mentale che ebbe poca attinenza con l'illusione: "ho paura dei muri, dei mobili, degli oggetti familiari che si animano, per me, d'una vita animale.
Ho paura soprattutto dell'orribile turbamento della mia mente, della ragione che mi sfugge, confusa, dispersa da una misteriosa e invisibile angoscia"....."ebbene ho paura di me stesso, paura della paura; paura degli spasmi del mio spirito che si smarrisce, paura di questa orribile sensazione del terrore incomprensibile."
Con lui finisce il naturalismo e il verismo ed inizia l'epoca di un esistenzialismo analitico, non giustificato da un male del vivere generalizzato ma come malattia psichiatrica indagabile anche attraverso il linguaggio.

Molière (1622 – 1673),
Jean-Baptiste Poquelin noto come Molière, nato a Parigi il 15 gennaio del 1622 è secondo me più vivo che mai per aver scritto, dopo le censure al suo Tartufo che mentre sino ad allora «i marchesi, le preziose, i mariti cornuti e i medici» sopportarono senza strepito che li si rappresentassero, «gli ipocriti non hanno proprio voluto saperne del ridicolo e se ne sono subito irritati, trovando insopportabile che io avessi avuto l’ardire di prendere in giro i loro difetti».
Nel 1982 pubblicai il suo "Tartufo" con la traduzione che ne fece Franco Parenti e fu in quell'occasione che mi accorsi del segreto di quel testo rivoluzionario: il coinvolgimento personale e autobiografico di Molière stesso in un personaggio che si pùò definire "negativo" solo nella farsa e "doloroso" nella sua dimensione tragica.
Se è vero come affermava Lucrezio che "Il genere umano è troppo avido di frottole" non è certamente falsa l'idea di Ludwig Wittgenstein quando annotava "non puoi non voler rinunciare alla menzogna e non puoi dire la verità".
Fa commozione pensare all'Homo habilis che imparò a fingere suoni della natura, gesti e versi di altri animali col nobile fine di mangiare prima d'essere mangiato ma è più difficile avere la consapevolezza che quasi tutte le idee e i comportamenti umani non sono altro che variazioni della finzione o emulazione biologica.
Nell'incessante scambio fra finzioni astratte che divengono concrete e fenomeni fisico-chimici che si smaterializzano, il vero capolavoro del cervello rimane l'attitudine a trasformare il dolore in sofferenza e la sofferenza in uno stupefacente continuum che va dalla più tragica disperazione alla più imprevista felicità.
Si tratta qui di una predisposizione al teatro particolarmente fantasiosa, arricchita da rappresentazioni.
Secondo questa prospettiva, i più antichi dolori legati alla nutrizione (sazietà), alla difesa (accoglimento fra i membri della propria specie) e alla rivalità, trasformandosi, sublimizzandosi, inventandosi, ci hanno dato modo di recitare la parte degli esteti incalliti, dei perfetti cittadini sempre alla ricerca di amore fraterno, dei leali eroi olimpici degni della più ammirabile gloria. Insomma il "tartufismo" descritto da Molière non è solo ascrivibile al senso comune che ci fa detestare l'ipocrisia ma soffermandoci su molte battute di quella sublime commedia come "il cielo proibisce in verità certi piaceri, ma con lui si trova un accomodamento" o "è il pubblico scandalo ad offendere: peccare in silenzio è non peccare affatto", sa anche farci partecipi di una predisposizione umana che non è credibile attribuire sempre agli altri come fecero i rappresentanti degli ambienti più conservatori e religiosi della monarchia che chiesero a Luigi XIV di far correggere a Molière l'opera, facendola finire con la sconfitta del Tartuffe e la vittoria di Orgone, per consumare in tal modo l'ennesima ipocrisia nell'opera stessa che avrebbe voluto combattere questo vizio.

Italo Svevo  (1861 – 1928)
Lo scrittore e drammaturgo ebreo Aron Hector Schmitz, conosciuto con lo pseudonimo di Italo Svevo, seppe trasformare l'ampolloso mito romantico del binomio genio e sregolatezza in quello, più spiritoso e domestico, di sopportazione e di "inettitudine".
Trascurò le pulsioni dionisiache di Friedrich Nietzsche per condividerne le analisi sulla pluralità dell'io e scartò la pretesa di Sigmund Freud di guarirci dalla nevrosi per sposarne le ambiguità e i limiti che quella pretesa aveva svelato.
Per Svevo, solo sopportando la propria alienazione, si è in grado di attuare una difesa possibile all'imposizione di una vita sociale condizionata dal desiderio di rendere efficienti e razionali le pulsioni vitali di ogni singolo individuo.
Era convinto che "a differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale.
Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite.
Morremmo strangolati non appena curati" e considerò la possibilità d'intuire qualche verità in " quegl'istanti rari che l'avara vita concede, di vera grande oggettività in cui si cessa finalmente di credersi e sentirsi vittima".
Fu per questo un nemico formidabile di chi, per non pagare mai il dazio, sa solo elaborare tutte le sfumature che qualsiasi variazione della parola olofrastica "NO" concede al lamento: "la legge naturale non dà il diritto alla felicità, ma anzi prescrive la miseria e il dolore.
Quando viene esposto il commestibile, vi accorrono da tutte le parti i parassiti e, se mancano, s'affrettano di nascere.
 Presto la preda basta appena, e subito dopo non basta più perché la natura non fa calcoli, ma esperienze.
Quando non basta più, ecco che i consumatori devono diminuire a forza di morte preceduta dal dolore e così l'equilibrio, per un istante, viene ristabilito. Perché lagnarsi? Eppure tutti si lagnano. Quelli che non hanno avuto niente della preda muoiono gridando all'ingiustizia e quelli che ne hanno avuto parte trovano che avrebbero avuto diritto ad aver una parte maggiore. Perché non muoiono e non vivono tacendo?
È invece simpatica la gioia di chi ha saputo conquistarsi una parte esuberante del commestibile e si manifesti pure al sole in mezzo agli applausi. L'unico grido ammissibile è quello del trionfatore".
Quando si dice uno scrittore molto attuale!

Torquato Tasso  (1544-1595)
 Nacque 11 marzo, figlio del veneziano Bernardo Tasso e di Porzia de' Rossi e fratello di Cornelia, sposata con il nobile Marzio Sersale, proveniva da un antica famiglia bergamasca che si divise in diversi rami famosi per essersi inventati per primi il servizio di poste compreso il ramo tedesco dei Thurn und Taxis.
 Quello che mi ha sempre divertito di questo poeta è il fatto che l'unico frutto letterario di genio partorito dalla gelida cattiveria della controriforma sia l'opera di un pazzo che fra prigioni, manicomi e conventi cercò di sentirsi responsabile dell'ortodossia cattolica, fino al punto di autodenunciarsi alla Sacra Inquisizione, per mancare completamente l'obiettivo che si era prefissato.
 Nessuno purtroppo legge la sua Gerusalemme liberata ma il mito dell'artista folle e incompreso trovò, prima in Goethe che gli dedicò nel 1790 il dramma "Torquato Tasso" e poi in Giacomo Leopardi che nelle "Operette morali" scrisse il "Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare" dove il povero poeta della controriforma diventa il pretesto per creare il simbolo del conflitto individuo-società, del talento personale che si contrappone al conformismo del potere.
 Oltre a questo mito Torquato Tasso creò anche il personaggio della perfida maga Armida, donna pericolosa e ammaliatrice capace di distogliere con la sua bellezza e con le sue arti magiche la missione di Dio e dei suoi santissimi crociati.
 Difficile nominare tutti i musicisti che hanno composto opere straordinarie per questa dea della perdizione, Albinoni, Salieri, Gluck, Cherubini, Haydn e per finire la straordinaria Armida rossiniana: appare comunque problematico, anche per il più ortodosso degli ammiratori del Concilio di Trento, vedere in Maria Callas che esegue "D'amore al dolce impero" uno strumento del demonio. Dedico queste note agli eroici patiti della controriforma che, ne son certo, preferiscono al meraviglioso fiabesco dell' Ariosto, in odore di eresia, quello del paladino Torquato fatto di interventi soprannaturali di Dio, degli angeli e delle creature infernali, un meraviglioso quest'ultimo reso più edificante per "la vera fede" dall'unità di azione stabilita dai precetti aristotelici.

Raffaele Viviani  (1888 – 1950)
Quando la nuova borghesia fascista e quella della sinistra del dopo guerra, gli girarono le spalle confidò: "le illusioni se ne vanno. Ho fatto per l'arte tutti i sacrifici.
Ma il pubblico vuole soltanto ridere… divertirsi".
Certo basta leggere i versi dedicati alle morti bianche dei carpentieri per entrare, senza equivoci, nel suo mondo tragico reso sopportabile dal recupero della commedia dell'arte, della musica e perché no anche di una capacità straordinaria nel far ridere:

"All'acqua e a ô sole fràveca
cu na cucchiara 'mmano, 
pe' ll'aria 'ncopp'a n'anneto, 
fore a nu quinto piano. 
Nu pede miso fauzo, 
nu muvimento stuorto, 
e fa nu vuolo 'e l'angelo, 
primma c'arriva, è muorto.".

Silvio d'Amico ritenne che le sue opere non avrebbero potuto sopravvivere senza l'interpretazione scenica del loro autore e invece ci pensarono Roberto Murolo, Nino Taranto ma anche e soprattutto Roberto De Simone che orchestrò le sue musiche per lo spettacolo "Io Raffaele Viviani" con Achille Millo, Antonio Casagrande, Marina Pagano, Franco Acampora ed Eugenio Bennato che rielaborò la sua Festa di Piedigrotta.
Naturalmente i soloni di Einaudi rifiutarono di pubblicare i suoi testi facendo la fortuna dell'edizione mondadoriana.
Di tutta l'icomprensione che per decenni ha riguardato la sua figura rimane quello che scrisse la figlia Luciana Viviani: "le risposte negative che ricevette non si discostavano per niente dai giudizi che i vecchi santoni della cultura fascista avevano ripetutamente espresso in passato.
Dopo la guerra l'ultima battaglia di Viviani fu il tentativo di dar vita ad un teatro stabile d'arte a Napoli che riuscisse a fondere la grande tradizione e l'innovazione.
Scriveva in una lettera a Giovanni Porzio, vicepresidente del consiglio, nel 1948: “ i fascisti non avevano capito che la coscienza nazionale si sviluppa solo valorizzando in pieno l'arte e la cultura che la genialità del popolo crea in ogni regione.
E in una conversazione con Mario Stefanile: I giovani non sanno che accanto a loro vi sono dei maestri, non sanno che vi sono dei tesori”

Frank Wedekind  (1864 – 1918)
Nacque il 24 luglio lo scrittore, drammaturgo e attore teatrale tedesco Frank Wedekind per il quale pubblicai, con la mitica Casa Editrice Anteditore, nel 1975 " Il gigante nano" in occasione della messa in scena di quest'opera con la regia di Andrée Ruth Shammah e con Franco Parenti, Enzo Consoli, Valeria d’ Obici, Raffaella Azim, Alessandro Quasimodo, Paola Sangro, Alberto degli Uomini, Riccardo Peroni, Giovanni Battezzato.
Questo autore, conosciuto specialmente per il suo capolavoro dedicato alle fantasie erotiche "Risveglio di primavera" , elogiato da Jacques Lacan che notò come i ragazzi non penserebbero alla sessualità "senza il risveglio dei loro sogni", fu un coraggioso precursore del ritorno in epoca novecentesca di un idea della morale di stampo nettamente laico e liberale. Per lui, ma anche per me, "il più splendido affare di questo mondo è la morale" e " il peccato è una definizione mitologica per gli affari andati male"
Fra tutto quello che ha scritto e detto vorrei citare una sua frase che, nella sua semplicità e straordinaria ironia, ha il fascino dell'illuminazione: "la vita non ha piacere e non è cortese con noi né ci è favorevole, se la si prende troppo sul serio".

 

 

John Lennon una vita complicata
Vinicius de Moraes poeta della lontananza
Scritti su Fabrizio De Andrè e Lucio Battisti
Incontri un po' speciali: Carmelo Bene, Roberto Benigni, Marlon Brando,
Maria Callas, Federico Fellini, Roberto Guicciardini, Marcello Mastroianni,
 Mario Monicelli, Aldo Palazzeschi, Paolo Poli, Anna Proclemer, Ettore Scola, 
Alida Valli, Luchino Visconti e Cesare Zavattini
I
I mio amico Ivan Graziani
Ancora canzoni & saggio su Renato Zero:
incontri con Sergio Bardotti, Renato Carosone, Domenico Modugno, Gianna Nannini, Roberto Vecchioni.
Note su John Lennon, Gino Paoli, Elvis Presley, Paul Simon, Rod Stewart, Sting e Stevie Wonder

Attrici & Dive:
Joan Crawford, Greta Garbo, Eleonora Giorgi, Daria Halprin, Audrey Hepburn.
Angelina Jolie, Nicole Kidman,  Vivien Leigth, Virna Lisi, Sophia Loren, Pupella Maggio,
Lea Massari.Mariangela Melato, Giovanna Mezzogiorno,  Marilyn Monroe, Julia Roberts

Scrittura & Cinema:

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Henry Miller, Eugene O'Neill, John Steinbeck, Bram Stoker, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Oscar Wilde, Tennessee Williams

Il Rovescio della Medaglia, considerazioni sui luoghi comuni
Il Fingitor cotese sapere come finzione

 
© Luigi Granetto, e-mail:granetto@gnomiz.it